mercoledì 4 aprile 2018

Zahra ‘Abdi

C’è un muro che funziona come uno specchio per Shirin e Afsun, le voci protagoniste di A Tehran le lumache fanno rumore: le divide e le unisce perché  è lì che si materializza lo spettro di Khosrou, inghiottito dall’interminabile conflitto con l’Iraq. Una guerra di posizione che si è consumata tra le trincee del deserto dal 1980 al 1988 ed è finita per consunzione, senza vincitori, senza obiettivi raggiunti, se non quello di vedere scomparire un’intera generazione. Quando parte per la sua destinazione (ignota) Khosrou affida “l’amaro della partenza” al muro lasciando tra le pietre un’ultima lettera per l’amata Afsun e una stanza vuota, in cui le è proibito entrare, per la sorella Shirin. Da quel momento le due donne si muovono dentro una Tehran ombrosa e misteriosa con “l’impressione che tutta la città stia imprecando”. Non si incontrano, ma sono legate in profondità da ciò era e da ciò che non è stato Khosrou: il suo vuoto, che diventa un’ossessione, viene colmato in modo diverso. Shirin, compressa nella cupa atmosfera famigliare, si affida al cinema, che diventa un universo parallelo, non solo perché, proprio come dice uno dei suoi registi preferiti, Tim Burton, “ci sono delle cose che perdi nel corso della vita e delle cose che ti restano attaccate. È per questo che è bello il cinema, perché quando un film ti colpisce, non te lo dimentichi più. Se un film riesce a colpirti emotivamente, entra a far parte del tuo mondo emotivo, per così dire”. Per trovare quel cinema, quello che arriva da Hollywood, Shirin deve comprare i film sfuggendo alla censura e si affida un ragazzo di cui si innamorerà. Afsun che aveva sviluppato la speranza di un amore deve sopravvivere all’incalzare della memoria che non la lascia mai sola: “Io non sono né innamorata né malata, solo che Khosrou sta per errore nei miei sogni e l’albero di noce pianta radici sotto il mio cuscino. Non sono innamorata né malata. Vado dietro a un ragazzo che ha gettato le mie ciabatte dentro una casa abbandonata. Un luogo alla cui porta busso da anni e che nessuno apre e per il quale ogni giorno invento una storia”. Per quanto ben caratterizzati, lo spacciatore di film per Shirin e i colleghi per Afsun sono parti della cornice di Tehran: le figure maschili sono sfuggenti e, non a caso, Khosrou è invisibile: le protagoniste restano comunque Shirin e Afsun, con il loro coraggio di inventarsi, raccontarsi e muoversi in una città attonita e confusa. Con l’evolversi del romanzo per Shirin diventa chiaro che “tutta la tua vita è già accaduta in un film”, e d’altra parte essendo il cinema per Shirin ciò che l’analisi è per Afsun, anche lei arriverà alla conclusione che “bene, Freud ha scritto delle cose. Dopo di lui sono arrivati altri psicanalisti che hanno aggiunto altre cose. E altre ancora se ne aggiungeranno. Ma ogni individuo scrive la propria storia personale, non è che tutti i sogni siano rivelazioni di metafore scese nel cielo”. Trovare una trama quando tutto è dettato dalla guerra, dalla rivoluzione, dalla religione, dalla tradizione è la sfida, o il compromesso, di A Tehran le lumache fanno rumore. Il ritmo, sinuoso, è determinato dall’alternarsi dei flashback e dei ricordi, con un presente immediato scheggiato dalle visioni cinematografiche, dai sogni e dalla psicologia che Zahra ‘Abdi assembla con cura, sfruttando al massimo le peculiarità di Shirin e Afsun e incastrandole nei silenzi di una città sovrastata dai fantasmi: è per quello che a A Tehran le lumache fanno rumore, e con loro, riescono a parlare persino le noci.

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