mercoledì 7 marzo 2018

Jurij Oleša

Il tempo è un concetto tecnico e la storia è un’illusione ottica che dipende tutta dalla prospettiva. Gli anni in cui Jurij Oleša scrive Invidia sono una profonda trincea tra due ere: la prima guerra mondiale è appena finita e già si prepara la seconda; gli imperi si stanno disgregando e la rivoluzione è diventata una realtà; il vapore, che pareva destinato a durare per sempre, sarà soppiantato, da lì a breve, dall’elettricità e dal motore a scoppio. È una dimensione (ancora) in evoluzione, una parte si specchia nell’altra, il passato e il futuro si dividono nell’incognita del presente a riprova che, come scrive Jurij Oleša, “la vita dell’uomo è una misera cosa. Il moto dei mondi è una minaccia”. Abbagliante riflesso di quel crepuscolare momento, Invidia è tutto doppio, a partire dal contrasto tra l’inconcludente Nikolaj Kavalerov che sconta le sue frustrazioni con Andrej Babičev, burocrate fedele alla collettività che sta cercando di ottimizzare un refettorio pubblico, il Četvertak, perché “la gloria, in questo mondo nuovo, si diffonde quando dalle mani di un salsicciaio esce una nuova qualità”. Ma Andrej ha un fratello, Ivan, e Nikolaj Kavalerov sarà sostituito nelle sue attenzioni, da Volodja Makarov, eroe dell’incontro con la Germania, e nel calcio, sia il campo che la partita sono divisi in due. Si può continuare fino alla fine: Invidia si riproduce per partenogenesi perché all’orizzonte, oltre al Četvertak, appare un altro manufatto, l’Ofelia (nome che a sua volta evoca lo specchio d’acqua in cui annegano i dubbi amletici), e due sono anche le donne (la diafana Valja e la lussuriosa Anečka) attorno alle quali ruotano le orbite ellittiche degli uomini. Infine, ma non meno importante, va ricordato che tra i vizi capitali, l’Invidia, più di tutti, necessita la presenza dell’altro e l’insistenza su questa dualità diventa, nei toni e nel ritmo, un fenomeno di rifrazione, che Jurij Oleša riassume così: “Trovo che il paesaggio osservato attraverso la lente convergente di un binocolo, ci guadagni in splendore, intensità e in profondità stereoscopica. È come se i colori e i contorni diventassero più nitidi. Un oggetto, pur sapendo com’è fatto all’improvviso appare assurdamente piccolo e insolito. E in colui che osserva suscita delle rappresentazioni infantili. È come vedere un sogno. Fateci caso, un uomo che ha posizionato il binocolo capovolto, inizia a sorridere placido”. L’effetto di Invidia è lo stesso (non a caso questo passaggio cade proprio a metà del romanzo): una concezione della storia senza controllo nel suo svolgimento, con ampi sprazzi onirici e fantasmagorici perché “l’invenzione è l’amata dell’intelletto”, e, come direbbe Ivan Babičev, “è un bene, però, che già corrano le leggende. Quando fallisce un’epoca, o in un momento di transizione, si sente il bisogno di queste leggende e favole”. Non di meno, Jurij Oleša è rigoroso nel rappresentare le dicotomie (se non proprio la schizofrenia) dell’epoca, sapendo che “la storia e il tempo sono la stessa cosa, dei doppi”. Sarà per quello che Michail Bachtin per spiegare “la parola come segno ideologico”, elesse Invidia a esempio, “grazie alla incisività che caratterizza fortemente l’orientamento sociale delle enunciazioni dei suoi eroi”. È vero, dubbi compresi: Kavalerov incarna, sì, lo spirito “gregario” di Nietzsche, ma in contemporanea un’idea individualista che si scontra con l’avvenire delle repubbliche sovietiche. Il vizio “capitale” si evolve tanto nella vendetta quanto nella burla e nel grottesco, ma anche qui c’è un sottile simbolismo da seguire con attenzione perché come diceva Henri Bergson, premio Nobel proprio nell’anno di Invidia (1927), “non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano”. Jurij Oleša se ne è ben accorto un secolo fa e quello che in Invidia rimane inespresso è profetico: “Noi siamo l’umanità giunta al limitare”, ma non sono state né le guerre né le rivoluzioni a portarci lì, bensì le macchine, i nuovi totem, che non conoscono peccato o redenzione, e non hanno bisogno di metafore per essere esprimersi in tutta la loro grigia tristezza.

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