martedì 13 febbraio 2018

Lev Tolstoj

L’accordo di terza che Tolstoj evidenzia a più riprese mentre La tempesta di neve infuria senza sosta è qualcosa in più di un intervallo musicale. Se nello specifico definisce la tonalità, quindi l’ambito stesso della melodia, nel contesto narrativo riporta ad altri due straordinari protagonisti del diciannovesimo secolo, Schubert e Beethoven, nelle cui opere (in particolare nella Sinfonia incompiuta e nella Quinta sinfonia) si sente risuonare la terza. La tempesta di neve è sottolineata da una coesione di elementi che ricorda da vicino un’orchestra nella mente di Tolstoj. Un breve viaggio in slitta si trasforma in un’epica traversata dentro una tormenta alimentata da un vento gelido e da “una neve asciutta e minuta” imperversa senza sosta. Il movimento della trasferta in sé è il bordone, necessario ma nascosto nelle retrovie, tanto è vero che Tolstoj non approfondisce i motivi di quel “vagabondaggio”, e lascia inespressi anche molti dettagli dei personaggi. Sappiamo che partono con un’aria tiepida, anche se il cielo senza stelle è una premonizione da non trascurare, e che si ritrovano a dover inseguire il suono delle campanelle (accordate in terza) delle carovane postali. Non ci si può fermare e il ritmo è ossessivo, per quanto la principale sensazione che La tempesta di neve induce sia quella dell’immobilità. La tormenta nella steppa genera una condizione particolare, che induce al disorientamento e alla perdita della cognizione delle coordinate dello spazio e del tempo. La destinazione rimane avvolta in un mistero fatto di luce invisibile e di un’oscurità opprimente. Il freddo, la mancanza di punti di riferimento e e l’inevitabile accento di fatalismo portano il viaggiatore prima a considerare che “in compagnia anche la morte è bella” e poi a lasciarsi trasportare in una dimensione onirica, ricostruendo il ricordo di un’estate con “una sensazione d’ingenua soddisfazione e di tristezza”. Il passaggio che sposta La tempesta di neve è il capolavoro della narrazione di Tolstoj, anche qui “omerica per ambientazione, shakespeariana per caratterizzazione”, come ha scritto Harold Bloom a proposito di Chadži-Murat. Un inciso che è un racconto scavato per contrasti dentro La tempesta di neve: i più superficiali e immediato sono il calore contro il gelo, le voci rispetto al silenzio, uno stagno agli antipodi dell’aria ghiacciata, la folla invece della solitudine. La differenza, che nel contempo divide e unisce i due racconti, è nella visione tra sogno e memoria: la morte è già passata, mentre è evocata, temuta, annunciata mentre La tempesta di neve segue il suo corso. Persino ambita dal viaggiatore sempre più sperduto: “Confesso che, pur avendo qualche paura, il desiderio che ci accadesse qualcosa d’insolito, un poco tragico, era in me più forte del timore. Mi sembrava che non sarebbe stato male se verso il mattino i cavalli ci avessero portati da sé, a metà assiderati, in qualche lontano, ignoto villaggio, e se anche qualcuno di noi fosse gelato completamente”. Anche nella coda finale, Tolstoj non concede nulla e le campanelle delle altre carrozze continuano a suonare la solita nenia. Non basteranno comunque per salvarsi dalla bufera: per uscirne dovranno seguire le tracce di sangue dei cavalli devastati a colpi di frusta, una scena che Tolstoj interpreta come se fosse l’assolo finale, alla perfezione. E qui è indispensabile ricordare quello che scriveva in occasione di un passaggio di Anna Karenina che coincide con La tempesta di neve per l’anno (1856) e il suo (identico) svolgimento: “Ora tutto l’orrore della tormenta pareva ancora più bello”. Enigmatico.

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