domenica 11 febbraio 2018

Jean Echenoz

Dall’occupazione nazista della Moravia a quella sovietica delle Cecoslovacchia, nell’interpretazione biografica di Jean Echenoz, Emil Zátopek è un ospite scomodo, nonostante trent’anni di carriera e di dedizione allo sport, perché è diverso ed è speciale. Quando corre non nasconde il dolore, è sempre una smorfia, ma vince sempre. Le prime medaglie (oro e argento) arrivano alle olimpiadi di Londra nel 1948, poi non si ferma più. Il regime lo inquadra nell’esercito ed è costretto ad assecondarlo per il prestigio delle vittorie internazionali, ma tollera con crescente fatica la sua innata, spontanea indipendenza, e il suo talento, visto che non fa “m, mai niente come gli altri, anche se poi è un tipo come tutti”. Come uno degli imprevedibili sprint di Emil, Jean Echenoz proietta nel corso della storia di Correre l’evoluzione da eroe a reietto, da trionfatore nel mondo intero a sconfitto in casa. Nel suo feroce agonismo, “Emil procede in maniera pesante scomposta, sofferta, a scatti”, non risparmia energie, non segue particolari strategie e quando gli consigliano, ovvero gli ordinano, di seguire un programma di esercizi lui “si allena, ma sempre a modo suo”. Davanti ai successi, i primi critici gli imputano la mancanza di grazia, di armonia, di eleganza, ma Emil si difende seguendo una logica stringente: “Correrò con uno stile perfetto quando valuteranno la bellezza della corsa sulla base di un punteggio, come nel pattinaggio artistico. Ma io, per ora, devo solo andare più veloce che posso”. Elementare, convincente, ma il suo non è un semplice proposito: la sua forza è nell’attenersi alla corsa, nella concentrazione completa, una condizione che raccoglie, sì, con tutte le pieghe del volto, ma anche con una placida rassegnazione, ben distante dalle celebrazioni eroiche dell’abnegazione coltivate dal regime. Se lo stile bizzarro e scoordinato viene considerato, pur con riluttanza, un aspetto eccentrico del Correre, il rifiuto ad accodarsi all’iconografia ortodossa non può passare né inosservato né impunito: “Emil, diranno i detrattori, non ha vinto la maratona: si è solo dedicato a una delle care vecchie sedute di allenamento. Quest’uomo che si contorce, figura del dolore, ha trasformato la gara della suprema sofferenza, la più drammatica, in una passeggiata. Se n’è burlato: la spossatezza del soldato che si accascia sul traguardo del dovere compiuto, il sudore e le lacrime, la barella e gli infermieri, l’angoscia e tutti i suoi ammennicoli, tutte fesserie, per lui. I detrattori sbagliano. Emil ha appena vissuto, come gli altri, il martirio, ma non lascia trasparire nulla, è discreto anche se il suo sorriso, quando taglia il traguardo, è quello di chi risorge. Una volta che l’ha superato, ansante giusto quanto basta, senza degnare di uno sguardo i barellerei, dichiara che no, non è poi così stanco, solo un po’ di mal di testa ma passerà”. La vittoria non è sufficiente, bisogna rispettare gli stereotipi, ed Emil non li segue, non per convinzione o per protesta, ma perché non gli appartengono. Con un tratto essenziale e nitido, Jean Echenoz ci restituisce la figura di un uomo che non ha mai smesso di Correre, a testimonianza che c’è sempre qualcosa che neanche i carri armati possono fermare.

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