mercoledì 28 febbraio 2018

Vladimir Jokanović

La storia è grezza e rudimentale: un gruppo di giovani amici jugoslavi, con tutto il naturale intreccio di passioni, amori, speranze e frustrazioni, si scompone all’inizio delle guerre balcaniche nell’ultimo decennio del ventesimo secolo. Si ritroveranno drammaticamente sotto altre bandiere, cambiati, deformati, irriconoscibili tanto da non poter più distinguere amico da nemico e da considerare che dopo tutto “non c’era una via d’uscita, non c’era speranza, il futuro era solo un proiettile in canna”. Romanzo d’esordio di Vladimir Jokanović, nato in Croazia da genitori serbi, Non è la mia guerra non è quello che comunemente si intende un bel libro. In quel frangente, Vladimir Jokanović, non era nemmeno uno scrittore dal linguaggio forbito, mancava del senso complessivo del racconto e dava al ritmo un senso piuttosto altalenante. In Non è la mia guerra ci sono momenti di furiosa intensità e secche dove molti passaggi suonano ingenui, riduttivi, forse anche dilettanteschi. Tutto ciò non impedisce a Non è la mia guerra di essere una coraggiosa testimonianza da un mondo andato in frantumi dove “i titoli cubitali dei quotidiani, i telegiornali, i manifesti elettorali, le lettere e le telefonate in piena notte, le promesse e le minacce pre-elettorali, gli stemmi e i libri di testo di storia patria, gli avvinazzati che rompevano i timpani per le strade della loro tranquilla città, le sparatorie notturne che lo svegliavano in un bagno di sudore e di piscio, tutti quei luridi giochetti che tendevano a immergerti, senza che tu te ne accorgessi in quel porcile che fino a ieri vedevi solo in televisione e che riguardava qualche altro angolo del pianeta, tutto ciò ti trascinava verso il centro di una montagna di merda per affogartici dentro”. Pur con tutti i suoi limiti, Vladimir Jokanović ha aperto una piccola crepa nell’indifferenza e nell’attonito stupore con cui è stata vissuta la disintegrazione della Jugoslavia. C’è qualcosa che per la prima volta emerge, grazie alla libertà che può concedere soltanto un romanzo, ed è un’insofferenza, un grido che sale più dallo stomaco che da altri organi, e che rifiuta di schierarsi, perché non sono possibili distinguo nell’orrore ormai conclamato: “Cazzo, che vadano tutti a farsi fottere, questa non è una guerra, è un’alluvione, si trascina tutto all’inferno”. La diaspora di Bea, Koki, Billy e Luka e Marija comincia nel dubbio, nello sgretolarsi delle convivenze, nell’indecisione se fuggire o combattere. Non può essere che una madre, quella di un altro amico, Siniša, che se ne è andato a Londra, a offrire un suggerimento, destinato, va da sé, a rimanere inascoltato: “Togliessero qualche grado a tutti questi ufficiali, ci andassero i generali a fare la guerra. Che la guerra la facciano quelli che la vogliono fare”. Nel tumultuoso incedere di quegli anni, nessuna scelta escludeva il caos, e l’incontro con la morte, prima “discreta come un segreto ben custodito fra due vecchi amici”, poi diffusa come un’epidemia inarrestabile, non solo ha devastato e azzerato le vite dei protagonisti di Non è la mia guerra, ma ha annullato intere generazioni. Un libro scomodo, ancora oggi.

martedì 27 febbraio 2018

Maurice G. Dantec

Maurice Dantec colpisce con un romanzo che fa di tutto per depistare il lettore, ma che nello stesso tempo lo rifornisce in continuazione di informazioni perché non perda di vista il nucleo centrale della storia, il nocciolo della questione, il big bang esistenziale nascosto tra le righe. Hugo Cornélius Toorop, personaggio ben noto agli aficionados di Dante, è incaricato da un ramo della mafia siberiana di portare in Canada e proteggere tale Marie Zorn, una ragazza che nasconde nel suo corpo qualche insondabile segreto. Siamo in un futuro abbastanza vicino e “il tempo passa molto in fretta”, come se fosse una variabile ormai impazzita. Non è l’unica: nel caos imperante di Babylon Babies, tra orrende sette religiose e bande di bikers, robot omosessuali che si suicidano perché non riescono a confrontarsi con la propria identità e un cane mutante di nome Springsteen, le forme di vita più rassicuranti sono i mostri che popolano le visioni di Toorop. Lui è l’essere umano troppo umano il cui ruolo sembra essere essenzialmente quello del testimone o di punto di riferimento per il lettore nel torrenziale diluvio di Babylon Babies, che è una vera e propria information overload letteraria. È un libro che forse offre anche l’occasione per chiederci che tipo di informazioni vogliamo da un romanzo, perché ci si trova in un bazar dove c’è di tutto: dalla fantascienza al thriller passando attraverso psicologia, biologia, antropologia, geopolitica, spionaggio e depistaggi assortiti, videogame e riti sciamani. A prima vista sembrerebbe Matrix in versione carta e inchiostro, ma dietro i fuochi d’artificio di Dantec si cela quello che è, in fondo, il tema essenziale di Babylon Babies, ovvero, per dirla con le parole dei suoi personaggi, quella “infinita varietà mutagena del principio comunemente chiamato identità”. Per arrivarci, con non poca soddisfazione, il lettore deve tenere il ritmo forsennato imposto dall’autore, non lasciarsi distrarre dalle mille bizzarrie tecnologiche di cui è disseminato il romanzo e nello stesso tempo cercare di non perdere i collegamenti principali della storia, che altro non è se non la memoria di tutte le identità che la attraversano. E basta una frase a spiegarlo: “Quel che conta, se ho capito bene, è che tutto sia scritto. E letto. Anche se da una sola mente. Che, va da sé, non sia quella dell’autore”. Troppo vero. Memorabile l’incipit: “Vivere era allora un’esperienza incredibile, nella quale il più bel giorno della tua esistenza poteva rivelarsi l’ultimo, oppure dormire insieme alla morte ti garantiva di vedere il mattino seguente, e nella quale alcune regole d’oro si imponevano con fermezza: mai camminare nel senso del vento, mai voltare la schiena a una finestra, mai dormire due volte di seguito nello stesso posto, rimanere sempre nell’asse del sole, non aver fiducia in niente e nessuno, trattenere il respiro con la classe del mortovivente al momento di estrarre il ferro salvatore. Qualche variante poteva di volta in volta aggiustarsi, la posizione del sole in cielo, il tempo che faceva, e con chi si aveva a che fare”. Da lì in poi, è una cascata da affrontare senza esitazioni.

lunedì 26 febbraio 2018

Tim Winton

Qualcuno ha scritto che con questo libro Tim Winton ha prodotto un capolavoro dello storytelling. Dal canto suo, Thomas Keneally ha usato parole sensazionali per descrivere questo romanzo. Un altro scrittore, Rick Bass, che qualcuno ricorderà come autore del bucolico Un inverno nel montana ha detto che I cavalieri è “un libro stupendamente scritto che porta una vecchia storia verso nuove terre”. In realtà si tratta di un viaggio molto più complesso che parte e finisce nella mente di Fred Scully: la moglie è scomparsa, anzi svanita nel nulla, e la figlia non ha più parole per raccontargli come o perché. Lei e il padre s’incontrano in uno dei luoghi più ameni possibili, la hall di un aeroporto, e da lì partono per un’odissea tutta europea, scandita dalle strofe di Raglan Road, una canzone adatta a non dimenticare l’Australia. Mentre seguono fantasmi e ricordi vagabondando tra Parigi, Firenze, la Grecia e l’Irlanda, una storia sembra sfumare dentro un’altra, sfociando nel dramma dark inaugurato dalla visione gotica di una ventina di cavalieri in una novella d’amore. La danza degli spettri a quel punto incombe e diventa imperativo decidere “quanta distanza si vuole mantenere da loro, chiedendosi quante che sarà abbastanza, chiedendosi perché fa così male, il desiderio”. La dimensione visionaria si intromette con prepotenza, e accompagna verso snodi inesplorati che però trovano un’adeguata collocazione, se non proprio un’armonia, nella complessità della trama. Sempre brillante e seducente, I cavalieri è sicuramente il romanzo più ambizioso di Tim Winton per la ricchezza dei temi che s’intersecano (non ultimo il rapporto tra padre e figlia), per il coraggio di affrontare paesaggi distanti (e non solo geograficamente) e per l’equilibrio che gli garantisce comunque una certa leggerezza, anche quando la vita dei suoi personaggi è drammaticamente in cerca di una seconda chance e tutto quello che riescono a vedere è “all’orizzonte un pesce solitario, grande quanto un uomo schizza in aria con gli neri di paura mentre cerca di sfuggire al suo persecutore. Non finisce mai”. Quest’aria frizzante dipende dalla tante note musicali che si sentono salire pagina dopo pagina (e non per niente la processione è inaugurata da Tom Waits) dagli angoli delle strade, da qualche vecchio motivo che continua a tornare in mente, da un walkman che non manca mai. La musica per caso di Tim Winton funziona proprio così: apre piccole crepe nel romanzo e lascia filtrare l’immaginazione del lettore. Ormai verso il finale, tra l’altro, questo eccellente narratore con il volto dell’eterno bravo ragazzo si è divertito a infilare un paio di nomi emblematici. In forma di cassette acquistate nel più grande magazzino di Parigi, compaiono al momento giusto, Ry Cooder e gli Hoodoo Gurus. Il primo potrebbe essere Paris, Texas ed è fin troppo facile trovare una spontanea assonanza con I cavalieri. I secondi restano una divertentissima rock’n’roll band (australiana, per la precisione) che soltanto un autore curioso e per niente ridondante come Tim Winton poteva evocare.

martedì 20 febbraio 2018

Miyamoto Teru

Il periodo sottinteso dai racconti di Bagliori fatui, dal 1978 al 1988 è un segmento della storia giapponese dominato da una grande bolla speculativa, generata a sua volta dall’irruenza dell’espansione economica seguita all’apocalisse della seconda guerra mondiale. Una fase di transizione complessa che si trasformerà in una lunga e tortuosa crisi. I personaggi di Bagliori fatui sono troppo deboli o troppo scettici per credere nei miracoli del mercato che, nella sua folle corsa, li lascia ai margini, in piccole cittadine di provincia, come scorie, residui, sfridi di un processo di selezione inevitabile. La prima frattura avviene tra genitori e figli perché l’evanescente percezione del futuro divarica le naturali distanze ed è così evidente in Forza vitale, che funziona un po’ da prologo, da apparire conseguente in Vendetta. Se in Forza vitale padri e madri sono problematici e incomprensibili nelle loro frustrazioni, in Vendetta, un istruttore di judo subisce le ritorsioni di un suo ex allievo, nel frattempo diventato membro della yakuza, per le pene inflitte a lui e ai suoi amici. Da un racconto all’altro, e sono tutti concatenati da dettagli, atmosfere, frammenti e da una sottile luce crepuscolare, c’è un rimbalzo continuo delle responsabilità per le drammatiche condizioni di vita. Succede nelle lancinanti storie di Morire e rinascere migliaia di volte al giorno, e Sulle scale in cui nelle “case dei poveri” prende forma lo straordinario inventario di sofferenze di una classe operaia devastata, limitata nelle aspirazioni, assorbita dalla propria solitudine, incapace di uscire dall’angolo. Spesso accompagnata dall’alcol, l’unica prospettiva è una lenta dissolvenza che si snoda spontanea e naturale in Bagliori fatui, lo straziante racconto centrale. Una sorta di monologo che si inoltra a scoprire profondità sconosciute del dolore, della malattia, del disorientamento richiamati ancora in La matita per le sopracciglia, Il mistero dei pomodori e La notte dei ciliegi e che sono le vere insidie nascoste sotto la superficie scintillante dell’impetuoso progresso industriale e delle ambizioni nazionali. Qualcosa che non ha prezzo e che il mercato non può nemmeno considerare: una condizione drammatica vissuta con una particolare discrezione nipponica, persino con gentilezza, come ricorda la stessa protagonista di Bagliori fatui: “Scrivevo a mia madre all’incirca una volta al mese per metterla al corrente di quella che un tantino esagerando le descrivevo come una vita felice”. Per Miyamoto Teru il dolore non è soltanto un’espressione individuale e  nei racconti di Bagliori fatui è chiaro che emerge dove uomini, donne e i traballanti nuclei famigliari che compongono sono schiacciati dall’assenza di prospettive, dall’infelicità, dalla durissima lotta per la sopravvivenza. Un certo “sollievo” è il massimo a cui possono ambire: si accontentano di una fragile tregua con la vita che vuol dire, in genere, un dignitoso armistizio con i ricordi e i fantasmi che li perseguitano dall’infanzia. Quasi come una forma di estremo rispetto nei loro confronti, Miyamoto Teru non si concede alcuna divagazione stilistica: la scrittura è tutta concentrata sulle storie, scarna e livida come le notti insonni sui tatami, concisa nella forma e limata parola per parola nel compilare i cahiers de doléances di un mondo invisibile, evocato a partire dal titolo.

lunedì 19 febbraio 2018

Fernando Pessoa

Se Il libro dell’inquietudine resta un universo non bene identificato lo deve all’unicità e alla multiforme personalità di Fernando Pessoa, interprete nell’occasione del più dimesso dei suoi eteronomi, Bernardo Soares. Sullo sfondo di una Lisbona invisibile eppure onnipresente, Bernardo Soares è un travet con la vocazione del sogno permanente, o dell’introspezione (o di tutte e due) convinto di poter “immaginare tutto” dalla sua condizione di “niente”. Il suo rapporto con il mondo è dettato dal fatto che “la vita è un viaggio sperimentale fatto involontariamente” e la concentrazione è rivolta alla sua percezione con ossessiva, persistente convinzione. Accompagnare Bernardo Soares nelle sue speculazioni quotidiane è un’avventura continua: nella sua forma “aperta”, Il libro dell’inquietudine spalanca spazi enormi, anche se Bernardo Soares (e/o Fernando Pessoa) è capace di accontentarsi e di perdersi con uno scorcio di campagna. Il pensiero è un flusso continuo senza interruzioni, un concatenarsi di riflessioni che si svela avvolgente, e poi imponente. La proprietà del linguaggio è tutta nel suo scorrere, un’ipnotica tensione che incolla le parole alla vita o, più, spesso le sovrappone visto che “la vera esperienza consiste nel diminuire il contatto con la realtà e nell’aumentare l’analisi di quel contatto. In tal modo la sensibilità si allarga e si approfondisce, perché in noi c’è tutto; basta cercarlo e saperlo cercare”. La dicotomia tra reale e non è risolta in modo drastico. Omesse le escursioni oniriche (“I sogni hanno questo di volgare: che tutti sognano”), assodato che “la vita è per noi ciò che immaginiamo in essa”, Bernardo Soares sposta l’attenzione verso il senso compiuto dell’interpretazione letteraria, intesa come intima conoscenza ed esperienza:  “Considero mie, con maggiore consanguineità e intimità talune figure che sono scritte nei libri, certe immagini che ho conosciuto nelle illustrazioni, più di molte persone che sono considerate reali, che sono fatte di quell’inutilità metafisica chiamata carne e ossa”. Nella suo pacato rimuginare Il libro dell’inquietudine ribadisce con assiduità questo concetto ogni volta approfondendolo un po’ di più: “Sento affetto per tutto questo, forse perché non ho più niente da amare: o forse anche perché niente merita l’amore di un’anima; e se dobbiamo dare amore per sentimentalismo, è indifferente se lo riserviamo alle piccole sembianze del calamaio o alla grande indifferenza delle stelle”. Se è un romanzo, Il libro dell’inquietudine ha una trama che va pensata, più che cercata, nelle parole e nei personaggi. L’unico che risponde all’appello è il signor Vasques, ovvero il principale di Bernardo Soares, e comunque in un ruolo defilato, quasi per contrasto, visto che l’esoterico impiegato alle sue dipendenze, rimane avvolto nella contemplazione: “Dal mio quarto piano sull’infinito, nella plausibile intimità della sera che sopraggiunge, a una finestra che dà sull’inizio delle stelle, i miei sogni si muovono con l’accordo di un ritmo, con una distanza rivolta verso viaggi a paesi ignoti, o ipotetici, o semplicemente impossibili”. Le distanze dei voli pindarici di Bernardo Soares sono in genere molto più ridotte, le aspettative di sicuro più limitate (“Dalla vita non voglio altro che sentirla perdersi in queste sere impreviste, al suono di questi bambini estranei che giocano in questi giardini sbarrati dalla malinconia delle strade che li circondano, e incorniciati, oltre che dai rami alti degli alberi, dal vecchio cielo dove le stelle ricominciano”) dato che Il libro dell’inquietudine è colmo di questi paradossi, necessari a dimostrare che “non si è mai vissuto tanto come quando si è pensato molto” e anche questo è frutto della consapevolezza che “in verità non possediamo altro che le nostre sensazioni; in esse, dunque, e non in ciò che esse credono, noi dobbiamo basare la realtà della nostra vita”. L’elevazione è, sua volta, una contraddizione: secondo Bernardo Soares “il saggio è colui che riesce a rendere monotona l’esistenza, poiché allora ogni piccolo incidente possiede il privilegio di stupirlo” e il suo compito è “cancellare tutto dalla lavagna da un giorno all’altro, essere nuovo ad ogni nuova alba, in una nuova verginità perpetua dell’emozione: questo e solo questo vale la pena di essere o di avere, per essere o avere quello che in modo imperfetto siamo”. La corrente emotiva è la vera energia che Il libro dell’inquietudine incanala e dipende in continuazione dal consiglio di rinnovamenti frequenti, per certi versi indispensabili: “Mi sembra una sorta di mancanza di igiene, questa inerte permanenza della mia vita uguale e identica nella quale giaccio, rimasta come polvere  o sporcizia sulla superficie del non cambiare mai. Così come laviamo il nostro corpo dovremmo lavorare il destino, cambiare vita cambiamo biancheria: non per provvedere al sostentamento della nostra vita, come col cibo e col sonno, ma per quell’estraneo rispetto per noi stessi che giustamente si chiama pulizia”. Le dimensioni ultime, definitive, rimangono la lettura e la scrittura, se è vero che “la letteratura è il modo più piacevole di ignorare la vita”. Rigoglioso, insistente, spiazzante anche dopo l’ennesima rilettura: un libro che non finisce mai.

giovedì 15 febbraio 2018

Salman Rushdie

Dal 1981 al 1991, nella risibile vicenda dell’umanità “si manifesta una grande varietà di sintomi malsani”, come li chiama Salman Rushdie, parafrasando Gramsci, nell’introduzione di Patrie Immaginarie. Molti di quegli sbalzi riguardano il subcontinente indiano e l’home front nel cuore dell’impero britannico ormai svanito, a cui Salman Rushdie dedica la prima metà dei saggi collezionati da Patrie immaginarie. Tra le considerazioni politiche, che comprendono la censura (e le minacce) per I figli della mezzanotte, l’assassinio di Indira Gandhi e una conversazione con Edward Said sull’identità palestinese, trovano una collocazione anche brevi anticipazioni di riflessioni letterarie e cinematografiche, tra cui una forbita dissertazione su Brazil. Succede perché Salman Rushdie è alla ricerca di un senso e “la storia è sempre ambigua. È difficile stabilire i fatti, e questi possono vedersi caricati di molti significati. La realtà è fondata tanto sui nostri pregiudizi, sulle nostre concezioni errate e sull’ignoranza, quanto sulla percettività e sul sapere”. Nella seconda parte di Patrie immaginarie la tensione verso significati che il tempo degli eventi storici e politici non concede e, anzi, tende a dissimulare, se non proprio a erodere, diventa prevalente e il motivo è tutto nella convinzione di Salman Rushdie che “gli esseri umani non percepiscono le cose per intero; non siamo dèi, bensì creature ferite, lenti frantumate, capaci solo di percezioni fratturate. Esseri parziali, in tutti i sensi della parola. Il significato è un edificio instabile che costruiamo con frammenti, dogmi, ferite infantili, articoli di giornale, osservazioni casuali, vecchi film, piccole vittorie, gente odiata, gente amata; questo forse avviene perché la nostra idea di realtà è costruita su materiali talmente inadeguati che la difendiamo a spada tratta, anche fino alla morte”. Va da sé che la risposta “molto semplice” di Salman Rushdie sta proprio nella letteratura intesa come “un meccanismo che da solo è in grado di provare il proprio valore o la propria falsità. Vale a dire che un libro non si giudica dalle credenziali possedute dal suo autore prima di scriverlo, ma dalle qualità che possiede una volta scritto. Ci sono libri terribili che scaturiscono direttamente dall’esperienza e avvenimenti straordinariamente immaginativi che trattano temi a cui l’autore è stato costretto ad avvicinarsi dall’esterno. Scopo della letteratura non è di imporre un copyright a certi temi. E per quanto concerne i rischi, uno scrittore li corre nello svolgimento del suo lavoro, nello spingere la propria opera ai limiti del possibile, nel tentativo di allargare il campo del pensiero possibile. I libri sono validi quando raggiungono questo limite e rischiano di travalicarlo, quando mettono in pericolo l’artista sulla base di quanto ha, o non ha, osato da un punto di vista artistico”. Tra gli scrittori degni di rappresentare questo punto di vista, ci sono, tra gli altri, Nadine Gordimer e John Berger, Ryszard Kapuściński e Michael Herr, John Le Carré e Bruce Chatwin, Umberto Eco e Italo Calvino, Thomas Pynchon e Kurt Vonnegut, Raymond Carver e Richard Ford, Julian Barnes e Kazuo Ishiguro, Grace Paley e Philip Roth. Una vera e propria miniera di suggestioni. A tutti Salman Rushdie dedica un’attenzione scrupolosa, sia attraverso l’analisi critica sia nella forma dell’intervista, ritagliandosi infine anche un piccolo posto per sé in queste sacrosante Patrie immaginarie, quando conclude dicendo: “Ma voglio che sia chiaro: non mi lamento. Sono uno scrittore. Non accetto la mia condizione e farò tutto di tutto per cambiarla, cionondimeno la vivo e cerco di imparare da quanto è accaduto. La vita ci insegna chi siamo”. Da usare spesso e volentieri.

martedì 13 febbraio 2018

Lev Tolstoj

L’accordo di terza che Tolstoj evidenzia a più riprese mentre La tempesta di neve infuria senza sosta è qualcosa in più di un intervallo musicale. Se nello specifico definisce la tonalità, quindi l’ambito stesso della melodia, nel contesto narrativo riporta ad altri due straordinari protagonisti del diciannovesimo secolo, Schubert e Beethoven, nelle cui opere (in particolare nella Sinfonia incompiuta e nella Quinta sinfonia) si sente risuonare la terza. La tempesta di neve è sottolineata da una coesione di elementi che ricorda da vicino un’orchestra nella mente di Tolstoj. Un breve viaggio in slitta si trasforma in un’epica traversata dentro una tormenta alimentata da un vento gelido e da “una neve asciutta e minuta” imperversa senza sosta. Il movimento della trasferta in sé è il bordone, necessario ma nascosto nelle retrovie, tanto è vero che Tolstoj non approfondisce i motivi di quel “vagabondaggio”, e lascia inespressi anche molti dettagli dei personaggi. Sappiamo che partono con un’aria tiepida, anche se il cielo senza stelle è una premonizione da non trascurare, e che si ritrovano a dover inseguire il suono delle campanelle (accordate in terza) delle carovane postali. Non ci si può fermare e il ritmo è ossessivo, per quanto la principale sensazione che La tempesta di neve induce sia quella dell’immobilità. La tormenta nella steppa genera una condizione particolare, che induce al disorientamento e alla perdita della cognizione delle coordinate dello spazio e del tempo. La destinazione rimane avvolta in un mistero fatto di luce invisibile e di un’oscurità opprimente. Il freddo, la mancanza di punti di riferimento e e l’inevitabile accento di fatalismo portano il viaggiatore prima a considerare che “in compagnia anche la morte è bella” e poi a lasciarsi trasportare in una dimensione onirica, ricostruendo il ricordo di un’estate con “una sensazione d’ingenua soddisfazione e di tristezza”. Il passaggio che sposta La tempesta di neve è il capolavoro della narrazione di Tolstoj, anche qui “omerica per ambientazione, shakespeariana per caratterizzazione”, come ha scritto Harold Bloom a proposito di Chadži-Murat. Un inciso che è un racconto scavato per contrasti dentro La tempesta di neve: i più superficiali e immediato sono il calore contro il gelo, le voci rispetto al silenzio, uno stagno agli antipodi dell’aria ghiacciata, la folla invece della solitudine. La differenza, che nel contempo divide e unisce i due racconti, è nella visione tra sogno e memoria: la morte è già passata, mentre è evocata, temuta, annunciata mentre La tempesta di neve segue il suo corso. Persino ambita dal viaggiatore sempre più sperduto: “Confesso che, pur avendo qualche paura, il desiderio che ci accadesse qualcosa d’insolito, un poco tragico, era in me più forte del timore. Mi sembrava che non sarebbe stato male se verso il mattino i cavalli ci avessero portati da sé, a metà assiderati, in qualche lontano, ignoto villaggio, e se anche qualcuno di noi fosse gelato completamente”. Anche nella coda finale, Tolstoj non concede nulla e le campanelle delle altre carrozze continuano a suonare la solita nenia. Non basteranno comunque per salvarsi dalla bufera: per uscirne dovranno seguire le tracce di sangue dei cavalli devastati a colpi di frusta, una scena che Tolstoj interpreta come se fosse l’assolo finale, alla perfezione. E qui è indispensabile ricordare quello che scriveva in occasione di un passaggio di Anna Karenina che coincide con La tempesta di neve per l’anno (1856) e il suo (identico) svolgimento: “Ora tutto l’orrore della tormenta pareva ancora più bello”. Enigmatico.

domenica 11 febbraio 2018

Jean Echenoz

Dall’occupazione nazista della Moravia a quella sovietica delle Cecoslovacchia, nell’interpretazione biografica di Jean Echenoz, Emil Zátopek è un ospite scomodo, nonostante trent’anni di carriera e di dedizione allo sport, perché è diverso ed è speciale. Quando corre non nasconde il dolore, è sempre una smorfia, ma vince sempre. Le prime medaglie (oro e argento) arrivano alle olimpiadi di Londra nel 1948, poi non si ferma più. Il regime lo inquadra nell’esercito ed è costretto ad assecondarlo per il prestigio delle vittorie internazionali, ma tollera con crescente fatica la sua innata, spontanea indipendenza, e il suo talento, visto che non fa “m, mai niente come gli altri, anche se poi è un tipo come tutti”. Come uno degli imprevedibili sprint di Emil, Jean Echenoz proietta nel corso della storia di Correre l’evoluzione da eroe a reietto, da trionfatore nel mondo intero a sconfitto in casa. Nel suo feroce agonismo, “Emil procede in maniera pesante scomposta, sofferta, a scatti”, non risparmia energie, non segue particolari strategie e quando gli consigliano, ovvero gli ordinano, di seguire un programma di esercizi lui “si allena, ma sempre a modo suo”. Davanti ai successi, i primi critici gli imputano la mancanza di grazia, di armonia, di eleganza, ma Emil si difende seguendo una logica stringente: “Correrò con uno stile perfetto quando valuteranno la bellezza della corsa sulla base di un punteggio, come nel pattinaggio artistico. Ma io, per ora, devo solo andare più veloce che posso”. Elementare, convincente, ma il suo non è un semplice proposito: la sua forza è nell’attenersi alla corsa, nella concentrazione completa, una condizione che raccoglie, sì, con tutte le pieghe del volto, ma anche con una placida rassegnazione, ben distante dalle celebrazioni eroiche dell’abnegazione coltivate dal regime. Se lo stile bizzarro e scoordinato viene considerato, pur con riluttanza, un aspetto eccentrico del Correre, il rifiuto ad accodarsi all’iconografia ortodossa non può passare né inosservato né impunito: “Emil, diranno i detrattori, non ha vinto la maratona: si è solo dedicato a una delle care vecchie sedute di allenamento. Quest’uomo che si contorce, figura del dolore, ha trasformato la gara della suprema sofferenza, la più drammatica, in una passeggiata. Se n’è burlato: la spossatezza del soldato che si accascia sul traguardo del dovere compiuto, il sudore e le lacrime, la barella e gli infermieri, l’angoscia e tutti i suoi ammennicoli, tutte fesserie, per lui. I detrattori sbagliano. Emil ha appena vissuto, come gli altri, il martirio, ma non lascia trasparire nulla, è discreto anche se il suo sorriso, quando taglia il traguardo, è quello di chi risorge. Una volta che l’ha superato, ansante giusto quanto basta, senza degnare di uno sguardo i barellerei, dichiara che no, non è poi così stanco, solo un po’ di mal di testa ma passerà”. La vittoria non è sufficiente, bisogna rispettare gli stereotipi, ed Emil non li segue, non per convinzione o per protesta, ma perché non gli appartengono. Con un tratto essenziale e nitido, Jean Echenoz ci restituisce la figura di un uomo che non ha mai smesso di Correre, a testimonianza che c’è sempre qualcosa che neanche i carri armati possono fermare.

sabato 10 febbraio 2018

John Berger

Contro i nuovi tiranni raccoglie una selezione di riflessioni che attraversa più di mezzo secolo ed è l’espressione migliore del dono di John Berger che Salman Rushdie individuava nella “sua abilità di aiutarci a comprendere come ciò che vediamo possa venire manipolato”. “Non c’è alternativa”, uno slogan che risale all’epoca di Margaret Thatcher, è il tema ricorrente di una nuova forma di tirannia, più subdola, elegante e accurata, ma i cui effetti non sempre sono visibili e comprensibili, come avverte fin dall’inizio John Berger: “Osservate la struttura del potere del mondo senza precedenti che ci circonda, e come funziona la sua autorità. Ogni tirannia scopre e improvvisa il proprio insieme di controlli. Ed è per questo che spesso, al principio, non li si ravvisa per quei controlli viscosi che sono”. Il despota supremo, il deus ex machina dell’era moderna è il mercato che “punteggia le nostre vite con la regolarità e la sistematicità di un ciclo di preghiere in seminario. Trasfigura il prodotto o la confezione in vendita in modo da conferirgli un’aura, dotarlo di una radiosità, che promette una specie di temporanea immunità dalla sofferenza, una sorta di salvezza provvisoria, l’atto salvifico restando sempre quello dell’acquisto”. L’elemento taumaturgico non è casuale (ancora una volta, il segnale è: non c’è altra possibilità) perché “le promesse sono mute e fisiche. Alcune sono visibili, altre tangibili, certe si possono udire, altre gustare. Altre ancora non sono che messaggi in un impulso” e, più di tutto, “il mercato esige che consumatori e dipendenti siano assolutamente soli al presente”. Lo strumento principale per raggiungere questa dimensione è la contrazione della comunicazione: impressioni invece di esperienza, assenza di una visione d’insieme, formule senza pensiero. John Berger va in direzione opposta e contraria, con convinzione: il suo modo di vedere è uno sguardo ravvicinato, sentito, scrupoloso. Ha qualcosa di matematico nell’approccio e nella cadenza, ma è molto umano. La sua voce è moderna, sensibile, acuta. È una lingua diretta, senza fronzoli, comprensibile ai più, sempre nell’ottica che “bisogna cercare di scrivere in modo che quanto si è scritto, anche se pensiamo che saranno in pochi a leggerlo, parli forte e chiaro ovunque lo leggano”. Con queste premesse, John Berger non ha mai temuto le sfide intellettuali, il confronto con impostazioni e temi complessi, ma sempre nell’ottica di un’estrema chiarezza perché l’oscurità delle informazioni è l’altra faccia dello sfrontato esercizio del potere. In questo, John Bergere è tanto esplicito quanto preciso: “L’atto di resistenza significa non soltanto rifiutare di accettare l’assurdità dell’immagine del mondo che ci è offerta, ma denunciarla. E quando l’inferno viene denunciato dall’interno, smette di essere inferno”. Detto questo,  John Berger non ha mai rinunciato a nessuna delle sue prerogative: è uno storyteller, o meglio, “un osservatore appassionato di gesti, reazioni e comportamenti”, e non si immagina in un ruolo differente. Diceva, ancora nel 2001: “Scrivere sull’arte o la politica in fondo importa poco: qualunque cosa si scriva, si cerca di raccontare la storia della propria esistenza qui e in questo momento. L’arte è un punto di partenza per parlare dell’enigma del senso, della ricerca del senso nella vita umana. Lo si può fare raccontando una storia o scrivendo su un affresco di Giotto oppure studiando in che modo una lumaca arriva in cima a un muro”. Contro i nuovi tiranni è un’antologia comprensiva di gran parte delle visioni di John Berger e, nella sua essenza, è l’estensione della definizione che di lui dava Stephen Spender: “una sirena per la nebbia nella nebbia”. Più necessario che mai.

venerdì 2 febbraio 2018

António Lobo Antunes

Un monologo crepuscolare, amaro, senza via d’uscita, con una marea di whiskey per mettere una distanza di sicurezza con incubi che non se ne vogliono andare. Una lenta risacca di alcol, e “John Coltrane che soffia dentro il sassofono la sua dolce amarezza di angelo ubriaco” perché ci vuole ci vuole tempo che non c’è più e “bisogna premunirsi contro questa notte”. In culo al mondo riporta l’intera Angola come se fosse la Guernica del Portogallo nella voce di un veterano che ha visto troppo, fin dall’inizio: “Quando mi imbarcai per l’Angola a bordo di una nave carica di militari per diventare finalmente un uomo, la tribù riconoscente al governo che mi concedeva gratuitamente l’opportunità di una tale metamorfosi comparve compatta sul molo, rassegnandosi in un impeto di fervore patriottico a subire gli spintoni di una folla agitata e anonima, simile a quella del quadro della ghigliottina, venuta fin lì per assistere, impotente, alla sua stessa morte”. Forse è una confessione, senza colpevoli, le vittime ormai dimenticate nel dramma delle atrocità di una guerra coloniale di un impero agonizzante, e António Lobo Antunes la registra da vicino, senza correggerla, vivida e grezza nel suo snocciolare aspro, sanguigno, sommesso ma non arrendevole, convinto che “forse dovremmo portare tutti delle bretelle affinché l’anima non cascasse sui calcagni”. La condizione è estrema, nonostante l’atmosfera di casuale confidenza che si crea tra l’uomo e la donna che lo sta ascoltando, con la benevolenza degli estranei perché, nonostante il ritorno in patria, gli rimane la sensazione di essere rimbalzato in un altro esilio. Inseguito dallo sconforto e dagli spettri che non lo lasciano mai, prova a spiegarsi così: “Appartengo sicuramente a un altro luogo, non so bene quale, d’altronde, ma suppongo che questo luogo sia così lontano nel tempo e nello spazio che non potrò mai recuperarlo”. Mentre la luce beffarda dell’alba si avvicina, In culo al mondo comincia a svolgersi a colpi di frusta (“Cerchi di capirmi: apparteniamo a una paese dove l’abilità fa le veci del talento e l’ingegno fa le veci della forza creatrice, e penso spesso che non siamo altro che dei minorati mentali ingegnosi che riparano i guasti alle valvole dell’anima con rappezzi di fil di ferro”), alternando le ferite sanguinanti dell’Angola a improvvise eruzioni di passione e malinconia (“Ogni volta che si fissa troppo qualcuno, costui comincia ad acquisire a poco a poco non un aspetto familiare, ma un profilo postumo nobilitato dalla nostra fantasia che immagina la sua scomparsa. La simpatia, l’amicizia, perfino una certa tenerezza, diventano più facili, l’indulgenza arriva senza sforzo, l’idiozia acquista la seduzione amabile dell’ingenuità. In fondo, è evidente, è la nostra stessa morte che noi temiamo quando viviamo quella altrui, ed è davanti a essa e per via di essa che noi diventiamo remissivamente vigliacchi”) per arrivare alla conclusione, quando ormai si è fatto giorno che “no, davvero, la felicità, quella condizione che viene fuori dall’impossibile convergenza di parallele fra una digestione senza acidità e l’egoismo soddisfatto e privo di rimorsi, continua a sembrarmi, a me che appartengo alla dolorosa classe di gente inquieta e triste in eterna attesa di un’esplosione o di un miracolo, qualcosa di così astratto e strano come l’innocenza, la giustizia, l’onore, concetti magniloquenti, profondi e in fondo vuoti che la famiglia, la scuola, la catechesi e lo stato mi avevano solennemente rifilato per potermi domare meglio, per neutralizzare, se così posso esprimermi, ab ovo, i miei desideri di protesta e di rivolta. Ciò che gli altri esigono da noi, capisce?, è di non essere messi in causa, di non scuotere le loro vite in miniatura, murate contro la disperazione e la speranza, di non rompere i loro acquari abitati da pesci sordi che fluttuano nell’acqua limacciosa della quotidianità, illuminata dalla lampada sonnolenta di ciò che chiamiamo virtù e che consiste soltanto, vista da vicino, nella tiepida mancanza di ambizioni”. Quando arriva il giorno, lei se ne va. Lui rimane a svuotare i posacenere e a pulire i bicchieri, ormai vuoti, ma se chiude gli occhi rivede tutto daccapo. In culo al mondo non fa sconti.