mercoledì 3 gennaio 2018

Chris Salewicz

Rispetto ai precedenti biografi di Bob Marley (Timothy White e Stephen Davis su tutti), Chris Salewicz sceglie un approccio a distanza ravvicinata. Si concentra sull’atmosfera, sugli aspetti conviviali (valgano i numerosi dettagli sul cibo e sulla vita quotidiana), su particolari che possono apparire insignificanti (per esempio, l’attenzione dedicata alle chitarre handmade) e che invece raccontano e rendono molto bene il senso delle umili radici di Bob Marley. Senza dimenticare i frangenti più crudeli e atroci, come la fine degli esecutori dell’attentato del 3 dicembre 1976, altrimenti riportata da Marlon James in Breve storia di sette omicidi. D’altra parte la componente violenta della Giamaica non si può nascondere, così come l’ambiguità e le usanze truffaldine dell’industria discografica. Chris Salewicz annota tutto con partecipazione e si affida a numerose testimonianze dirette, che rendono credibile la sostanza della sua ricostruzione. Il tono e la direzione sono già chiarissimi nell’incipit, dove Chris Salewicz racconta il suo incontro con Bob Marley avvenuto durante la visita, nel 1978, a un detenuto a Gun Court, un campo di detenzione per chiunque fosse trovato in possesso anche di un frammento di arma. La Giamaica, scossa da una serpeggiante guerra civile, se per tradizione “ha avuto un effetto sproporzionato sulla parte restante del pianeta” si trovava nell’epicentro delle tensioni della guerra fredda, per almeno due ragioni concrete: la posizione strategica nei Caraibi (compresa la vicinanza con Cuba) e la produzione di bauxite, principale componente dell’alluminio, a sua volta indispensabile per l’industria aeronautica. Una polveriera in cui la voce di Bob Marley si è elevata con la sua semplicità, il suo appartenere alla terra, le sue richieste povere e nello stesso tempo dal valore universale, visto che, come nota Chris Salewicz, “non è affatto strano che Bob Marley oggi goda di uno status di icona più prossimo al mito ribelle di Che Guevara che non a quello di una popstar”. Dal ghetto al successo internazionale, da Trench Town a Londra, dalla guerra civile nelle strade giamaicane alle lotte di liberazione africane, Bob Marley ha attraversato il suo tempo come un profeta, un’identità definita che Chris Salewicz riporta con grande efficacia, ma restituendola in tutti i suoi contorni umani. Non sarebbe successo senza il veicolo ipnotico e contagioso del reggae che contiene “il religioso, il romantico e il sessuale tutti insieme”, come diceva il critico musicale giamaicano Garth White, e che Chris Salewicz colloca nella giusta dimensione, rendendo conto della sua complessa genesi, dalle influenze del rhythm and blues e del jazz allo ska, dal rocksteady alle battaglie dei sound system, fino al dub e alle prime avvisaglie pop e hip-hop. Bob Marley è emerso da questo magma sonoro e ne è diventato “un archetipo” grazie al coraggio con cui ha scelto le parole di redenzione e di ribellione, di guerra e di pace, dell’Africa e di Babilonia, degli schiavi e dei Buffalo Soldier, dell’amore e della fede. Un linguaggio intraducibile e paradossale, la cui unicità è stata recepita worlwide per quello che è: la voce umana (molto umana) di uno spirito superiore che cantava canzoni di libertà.

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