giovedì 16 novembre 2017

Ricardo Piglia

Partendo dalla figura del lettore vista dentro romanzi che ormai sono qualcosa più che classici, Ricardo Piglia tratteggia una sorta di manuale di autodifesa del lettore e insieme un identikit di questa particolare figura letteraria senza la quale non vive nemmeno il suo corrispettivo più altisonante, lo scrittore, dato che la lettura costituisce uno spazio tra l’immaginario e il reale, fa venir meno la classica opposizione binaria tra illusione e realtà. Non c’è, al tempo stesso, niente di più reale e di più illusorio dell'atto di leggere. Molte volte il punto d'intersezione tra il sogno e la veglia, tra la vita e la morte, tra il reale e l’illusione è rappresentato dall'atto di leggere”. Visto che tra le tanti immagini del lettore che questo bel libro di Ricardo Piglia elenca nelle sue forbitissime pagine c’è anche quella di “colui che legge male, distorce, percepisce in modo confuso”, forse va la pena di cominciare a parlarne leggendo dal fondo. Tanto non è un thriller, non si svela la trama, non si brucia la sorpresa ed è proprio nelle battute conclusive che, citato in due-righe-due, Josif Brodskij spiega il senso ultimo del libro di Ricardo Piglia quando dice: “In poesia come in qualsiasi altra forma di discorso, il destinatario conta quanto colui che parla”. Il lettore, questo essere misterioso che “tende a essere anonimo e invisibile”, che non legge un libro, ma è “smarrito in una rete di segni”, che vive in un mondo parallelo senza aver rinunciato all'idea che prima o poi “quel mondo irrompa nella realtà”, sempre convinto, dai libri e dalle sue letture, che “ciò che possiamo immaginare esiste sempre, in un'altra scala, in un altro tempo, nitido e lontano, come in un sogno”. Degli scrittori si sa tutto, dei lettori nessuno si ricorda mai e allora Riccardo Piglia racconta la bellissima solitudine grazie alla quale non sono, e non siamo, mai soli perché “chi legge è protetto da qualsiasi turbamento, isolato dal reale” e può permettersi altre lenti e altre finestre con cui guardare il mondo perché “la lettura agisce come un modello generale di costruzione del senso” ed è sempre salvifica, anche quando è triste, malinconica, dolorosa. Le prove per rispondere a tutte queste tesi Ricardo Piglia le va a cercare, come un qualsiasi lettore, in quei libri dove il lettore trova “un nome e una storia” e allora si comincia con Borges e da Buenos Aires si arriva a Dublino, da Joyce si scivola verso Cervantes, Kafka, Tolstoj e persino un Che Guevara che legge Jack London. Ogni lettore nella finzione diventa un modello di lettura o un piccolo tassello di un volto che va costruendosi pagina dopo pagina, insieme ad una particolarissima bibliografia e ad un'idea di lettura che “si oppone a un altro universo di senso. A un’altra maniera di costruire il senso, per meglio dire. Abitualmente è un aspetto del mondo che il soggetto accantona, un mondo parallelo. E l’atto di leggere, di possedere un libro, è solito articolare tale passaggio. C’è qualcosa di magico nelle parole, come se invocassero un mondo o lo annullassero”. Serviva qualcuno che ricordasse che la lettura è una magia e un viatico più per i sogni che per i sonni, perché in fondo in fondo il lettore “è colui che arriva tardi, è l'ultimo cavaliere errante”. Da questo libro, in poi, un po’ meno sconosciuto, un po’ più fortunato.

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