lunedì 6 novembre 2017

Omar Cabezas

E’ giovanissimo, Omar Cabezas, quando aderisce alla causa sandinista e ha poco più di vent’anni quando raggiunge la guerriglia sulle montagne del Nicaragua. Un passaggio irto di ostacoli e difficoltà per uno studente universitario, che si rende necessario perché la montagna insegna, allena, addestra. Il suo è un diario tenuto con un linguaggio “fresco, divertente, diretto e irriverente”, come ha scritto Carlos Fuentes, e comunque magnetico, come d’altra parte l’ha definito Julio Cortázar. Due presentazioni di prestigio che rendono bene il senso ultimo e più profondo di Fuoco dalla montagna. La questione ideologica, la rivoluzione sandinista in sé, resta sullo sfondo anche se il movente è sempre chiaro e ineluttabile. L’attenzione di Omar Cabezas porta in primo piano quello che è, a tutti gli effetti, un romanzo di formazione. La resistenza collettiva e la maturazione personale cominciano proprio dagli stenti quotidiani, dalla condivisione del dolore, della fatica, della noia, del freddo e della solitudine. La montagna è impervia, è un rifugio, ma è anche una trappola e l’azione è sempre sottolineata dalle difficoltà, dagli sforzi estremi per supplire alle necessità minime e indispensabili di ogni giorno. Mangiano carne di scimmia, ma più spesso il menù è limitato a un po’ di latte in polvere. Sopportano le sveglie all’alba, gli esercizi nel fango, le lunghe marce, le malattie, la cupa tristezza per la perdita di un compagno, gli allarmi, le emergenze e le ritirate. Più di tutto la presenza incombente ed esigente della montagna. Lassù “la pelle si fece dura, lo sguardo si fece duro, il palato si fece duro. La vista si fece più acuta, l’olfatto iniziò a perfezionarsi, i riflessi sempre migliori: ci muovevamo come animali. I nostri ragionamenti si fecero sempre più duri, man mano che l’udito si acuiva. Era come se ci rivestissimo della stessa durezza del bosco, della durezza degli animali”. La metamorfosi porta Omar Cabezas a scoprire che “il fuoco, su in montagna, è un’arte” e le sue descrizioni ricordano da vicino Preparare un fuoco, il classico di Jack London: “Man mano che prende il fuoco, la fiamma emerge là dove c’era solo bagnato, il fuoco nasce là dove c’era solo umidità, e prende forza, si avvicina ai rami più grandi, accende i rametti poi quelli più grandi e quelli più grandi ancora, finché non si accende del tutto. Quasi non ci si crede che possa prendere un fuoco là in mezzo. Ti asciughi, ti scaldi: che possa apparire del fuoco in mezzo a tanta umidità, in mezzo a tanta pioggia, nel bel mezzo di una selva così umida, è una cosa inimmaginabile”. Non di meno, il ritorno a valle, in città, dove lo chiama la sua missione, è altrettanto pieno di stupore. Qualcosa è rimasto incastrato nella montagna, il tempo è schizzato verso il futuro, Omar Cabezas lo intuisce quando si ritrova a casa: “Mi sembrava che quell’anno di assenza fosse durato un secondo appena. Non sapevo se l’avevo vissuto davvero, se ero stato davvero su in montagna. Di sicuro erano passati molti giorni, uno dopo l’altro, prima di arrivare lì, ma non ero sicuro di essermene andato davvero. Ero su una macchina clandestina, con due compagni armati e quando passammo di fronte alla casa e la vidi, accidenti! Fu un colpo incredibile, mi pareva tutto irreale. Ogni tanto ci convinciamo che il mondo evolve con noi; ci convinciamo che sia il mondo a farci evolvere; a volte abbiamo l’impressione che, se non ci sei tu, rimane tutto immobile”. Una bella testimonianza.

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