mercoledì 15 novembre 2017

Árni Thórarinsson

Essendo un’isola, l’Islanda è un ecosistema chiuso e concluso su se stesso e si riflette nella vita dei suoi abitanti. Nello stesso tempo, nonostante la distanza, l’Islanda non è dissimile dal resto del continente europeo alle prese con crisi economiche, speculazioni, violenze, abusi. I problemi di ogni altra nazione di questo mondo. Anche a nord del paese, le tensioni risentono di tutti questi elementi, in contrasto con la vita al rallentatore e i ritmi bucolici. Einar, giornalista della capitale islandese viene spedito ad Akureyri, una cittadina settentrionale che non raggiunge i ventimila abitanti, dove un vento appena più forte della brezza sarebbe già una notizia. Retrocesso a cronista di provincia, Einar pare sempre all’ultima spiaggia nei suoi rapporti: con il giornale, con la figlia (si intuisce una separazione, alle spalle), con la solitudine, con l’alcol (a cui deve rinunciare) e con la sigaretta, che consuma sempre come se fosse l’ultimo desiderio del condannato. Messo così, è normale che affronti tutti gli ostacoli con riluttanza. Mentre cerca un modus vivendi con un insopportabile caporedattore centrale votato alla carriera e uno locale con cui non si capisce, ad Akureyri tre persone muoiono in circostanze non proprio naturali: una donna affoga durante una stupida discesa di rafting con i colleghi per rafforzare lo spirito aziendale, una ragazza si suicida e uno studente, appassionato attore e aspirante regista, viene trovato carbonizzato. La trasferta comincia a farsi movimentata: Einar trova un appiglio su cui concentrarsi, un posto dove stare e da cui elaborare strategie di sopravvivenza. E’ un osservatore meticoloso, distaccato, un investigatore istintivo e maniacale, solo che ci mette un bel po’ ad arrivare la punto giusto. Lento e caparbio, ha la tendenza a cercare e a ricostruire l’intero quadro: le vittime, i colpevoli, il contesto, i moventi, i precedenti, gli innocenti. Sono tutti importanti, nello stesso modo, solo che è difficile spiegarlo e a Einar non sfugge la confusione: “Tendenze sessuali, etnia, razza, pelle, nazionalità, culto. Quando sono in ballo questioni del genere, la gente spesso confonde le questioni secondarie con quelle principali. Qualsiasi siano i motivi”. L’omicidio, in particolare, genera una moltitudine di scintille anche nella sonnolenta Akureyri ma l’unico disposto a seguirle sembra essere Einar, animato dall’istinto e dalla necessità di sentirsi ancora vivo e utile. Una condizione che Hannes, il suo direttore editoriale, ammette così: “Forse il tuo dubbio, a guardar bene, è se tutti noi apparteniamo davvero a questa società. A volte ne dubito anch’io. Ne dubito profondamente. Ma non possiamo fingere che non esista”. Il tempo della strega è un romanzo sornione, con un andamento indolente consono al tran tran di Einar, però sotto la finta pelle della black comedy, i toni ironici (se non proprio comici, a tratti) scoprono le incrostazioni spontanee del ventunesimo secolo, che sono uguali a tutte le latitudini: fusioni aziendali che sono fallimenti mascherati, bancarotte figlie di ruberie continue, l’attrito tra tradizioni religiose e radici pagane, lo sfruttamento indiscriminato del territorio e le contorsioni politiche, la noia dei giovani e l’assuefazione degli adulti. Senza pretese moralistiche e con molto garbo perché Árni Thórarinsson ed Einar si somigliano molto, sanno che per vivere in Islanda, come in ogni altro luogo, serve accontentarsi un po’.

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